Il problema dell’attenzione attraversa tutta la vita individuale e collettiva dell’epoca contemporanea. Se per secoli le strategie di osservazione sono state alla base del pensiero analitico razionale, a partire dall’Illuminismo questo principio cessa di essere un assoluto e inizia a essere posto in discussione. Gli studi sulla fisiologia della visione e sui processi cognitivi, l’emergere di nuove tecniche visuali come la fotografia, la nascita della psicologia, lo sviluppo di pratiche artistiche rivolte alla percezione piuttosto che alla rappresentazione, indeboliscono lo statuto dell’attenzione come facoltà superiore del vedere e dell’intelletto. Nei primi decenni del novecento è la tensione irrisolta tra attenzione e distrazione a divenire il nodo attorno a cui prende forma
la soggettività moderna: in un campo percettivo continuamente sollecitato ai bordi da un susseguirsi di choc e stimoli sensoriali, l’individuo socializzato è spinto ad elaborare nuove forme di attenzione selettiva che consentano di preservare la pienezza di sé in un ambiente sempre più variegato e
instabile. Dal porre attenzione, l’individuo passa al prestare attenzione, in maniera provvisoria e sospesa. Se il fisiologo Paolo Mantegazza, alla fine dell’Ottocento, faceva risalire alla rivoluzione del 1789 le premesse di quello che definiva il “secolo nevrosico”, negli anni 1920 e 1930 il Surrealismo e le poetiche della deriva hanno proposto la distrazione non più come uno stato patologico, ma come la condizione conoscitiva per eccellenza.[1]
Come ha fatto notare di recente Jonathan Crary, questo recupero della distrazione, avviato in poesia e letteratura da Baudelaire e da Poe, non deve essere considerato semplicemente nei suoi risvolti estetici o culturali. Nella dialettica moderna tra forme di attenzione e distrazione entra in gioco il problema fondamentalmente politico del corpo.[2] Il corpo del cittadino, suggerisce Crary, è il locus nel quale si inscrive la lotta tra una percezione che aspira a liberarsi e i ripetuti tentativi del potere di disciplinare le forme di attenzione. Nella fabbrica e nella scuola, ma anche nello svago, nell’arte, nei rapporti primari, la percezione attenta o disattenta non è mai solo appannaggio dell’occhio individuale concentrato su di sé (nel pensiero, nell’osservazione, nella lettura), ma coinvolge fisicamente i rapporti con l’esterno attraverso la mano, il tatto, la postura, l’agilità del corpo, la prossemica. Dunque l’educazione alla concentrazione non riguarda solamente il quadro psicologico della persona, ma ha effetti di ampia portata nei rapporti sociali, e quindi nella distinzione tra massa e cittadinanza.
In questo quadro, la fotografia ha occupato una posizione cruciale, riproponendo periodicamente, senza mai risolverla, la contraddizione di una tecnica che presuppone un corpo-occhio al lavoro, ma che contestualmente lo maschera sotto l’apparenza di una scrittura trasparente e scorporata. Da un lato, il fotografo è portatore di un occhio moderno in grado di sviluppare forme inedite di attenzione –attraverso la sua mobilità, l’accettazione del caso, l’annessione di nuovi territori del vedere. Dall’altro, è proprio attraverso l’egemonia dell’oggetto fotografico scorporato e anonimo che il pubblico viene educato a meccanismi di attenzione addomesticata, assopita nella consolante eccezionalità dell’illustrazione, dell’esotico, del formalismo.
Alla fine degli anni ottanta, Marina Ballo Charmet ha iniziato a fotografare la dialettica tra attenzione e disattenzione nel campo percettivo del soggetto contemporaneo.
I progetti realizzati in questi due decenni – Il limite, Con la coda dell’occhio, Rumore di fondo, Primo campo – circoscrivono chiaramente un programma di indagine sui bordi del percepito e sul rimosso della visione individuale.[3] Egualmente distante dalla rappresentazione naturalistica e dalla registrazione degli stati psicologici immediati, Ballo Charmet lavora attraverso serie fotografiche di lungo periodo su specifici soggetti – o più precisamente su zone mentali – scelti tra quelli che interrogano con maggiore evidenza il rapporto tra attenzione e disattenzione nella nostra quotidianità: il paesaggio/passaggio tra terra e acqua, tra la permanenza della traccia e il flusso della percezione; il suolo costruito della città contemporanea, con le sue asperità e i suoi piccoli accidenti, che solitamente occupa la periferia del nostro campo percettivo e che apprendiamo in egual misura con gli occhi e con i piedi; le facciate degli edifici che si elevano al di sopra della strada, che la visione prospettica e lineare tipica del cittadino moderno funzionalizzato – sempre rivolto a una meta – tende a omogeneizzare in una texture indifferenziata; l’ambiente domestico normalmente ridotto a macchina per abitare, nei cui angoli si depositano segni involontari, tracce di uso e di abitudine, frammenti dimenticati, polvere; le aree del corpo al di sotto e ai lati del volto, dove scivola lo sguardo quando in una conversazione il pensiero divaga, o che costituiscono il primo campo visivo del bambino che apprende a guardare in modo affettivo.
A proposito di tutti questi lavori, Marina Ballo Charmet parla di un “arrivare a vedere”: il tentativo di far emergere dal campo visivo principale percezioni latenti, che si accumulano in maniera inconscia negli anfratti della nostra psiche. Le sue prime esplorazioni di questo “non-pensato” sono avvenute in un territorio letteralmente di confine: nella serie Il limite (1987/1990), le spiagge, le lagune, gli argini di fiume sono luoghi metaforici nei quali il contatto tra terra e acqua (ma anche tra la terra e l’atmosfera, nelle nebbie e nello svaporare dei cieli), indicano il punto critico dove lo sguardo accenna a liberarsi dal segno, dalla geografia, dal viaggio “organizzato” della mente. Anche le condizioni-limite della luce – una luce tutta fotografica, intenzionalmente “costruita” tra la chiarità dei cieli e la penombra avvolgente – contribuiscono a modulare il campo visivo in un pulsare distensione e di concentrazione.
Il primo esercizio di Marina Ballo Charmet è stato dunque quello di affrontare un tema classico – il paesaggio e la sua veduta –per verificare i parametri concettuali e operativi di un pensiero sui margini della psiche contemporanea. In questo lavoro iniziale paiono ancora riconoscibili alcuni rimandi alla tradizione del paesaggio pittorico e a tematiche tipiche del dibattito italiano sulla fotografia degli anni ottanta. Questi precedenti, tuttavia, sono elaborati entro un percorso autonomo. In un saggio del 1989 che è divenuto un punto di riferimento per la cultura della fotografia contemporanea in Italia, il critico e storico della fotografia Paolo Costantini proponeva l’idea di una “insistenza dello sguardo” –un osservare concentrato, lento, minuzioso, ripetuto – come antidoto alla fuorviante fascinazione della fotografia: un guardare, scriveva, «che non [abbia] l’intenzione primaria di affascinare, se è vero che la fascinazione è l’atto supremo della distrazione, dell’essere “disattento” al mondo qual è.»[4] La ricerca di Marina Ballo Charmet, pur collocandosi nel solco di una fotografia antispettacolare e scettica, ha sottoscritto solo in parte questa censura radicale della disattenzione. È proprio da un rischioso «atto supremo della distrazione» e dal campo perturbante del non-pensato che le fotografie de Il limite prendono corpo, mettendo in scena una disattenzione comune, laica, che non aspira a divenire superiore intelligenza o contemplazione rarefatta.
L’idea di un senso comune del guardare, fondamento di una generazione che ha inteso restituire alla fotografia una funzione etica, nel lavoro di Ballo Charmet assume il carattere dell’empatia: qualunque spettatore può riconoscersi e immedesimarsi nella sua visione. Ma se al fondo di molta fotografia contemporanea di paesaggio è possibile ritrovare una fiducia (che potremmo definire heideggeriana) nella epifania – uno stato che permette di riallacciare i “sentieri interrotti” della coscienza alienata – Ballo Charmet propone invece il riconoscimento allibito dell’alterità radicale della cosa-in-sé: la irriducibilità di un non-senso che mette in crisi le pretese organizzatrici di una visione “armata”.[5] Ne Il limite, l’allontanamento da un approccio prospettivista e razionalistico non implica l’illusione di poter ritornare allo stato archetipico di un occhio innocente o armonico. Lo scavo nelle pieghe della coscienza distratta implica sempre una tensione e un lavoro di ricerca, i cui esiti rimangono sospesi. In questo senso le sequenze fotografiche che costituiscono l’ossatura de Il limite – nelle quali il medesimo campo visivo viene presentato attraverso variazioni di posizione e di inquadratura – danno conto della natura processuale della ricerca. Non si tratta di una sperimentazione sugli aspetti descrittivi o narrativi del linguaggio fotografico, ma di esperimenti di approssimazione al campo dell’altro.[6]
Questa dimensione soggettiva della percezione non intende essere solipsistica. Come ha scritto il filosofo Enzo Paci, «l’esperienza degli altri è sempre presente quando Merleau-Ponty parla di ritorno al soggetto originario e questa esperienza fa sì che la filosofia e la pittura non debbano soltanto esprimere delle idee, ma far in modo di suscitare negli altri le percezioni dalle quali soltanto le idee possono nascere.»[7]
Da questa prospettiva, la serie Con la coda dell’occhio (1993/1994) appare come uno sviluppo e una precisazione dell’indagine sulla disattenzione, traslata dalla dimensione individuale a quella intersoggettiva. In questo lavoro l’occhio-corpo di Ballo Charmet si muove nell’ambiente urbano solitamente denso di segni e di persone, ma questa struttura visiva tipica della grande città – fatta di segnali stradali, direzioni obbligate, spazi definiti, ma anche di volti e corpi in movimento – viene intenzionalmente lasciata ai margini del campo visivo.
Lo sguardo si abbassa e si sfrangia in una visione “imprecisa”, che pare inseguire il movimento del corpo senza avere il tempo di aggiustarsi e di correggersi. Anche grazie al forte ingrandimento, dal campo visivo abituale vengono fatti emergere i minimi punti di ancoraggio del nostro vagare quotidiano (i fiori che crescono o muoiono in un’aiuola), gli accidenti spesso senza forma o significato (una commessura nel selciato che si apre di giorno in giorno), i microspazi che fungono da isole di sosta o di riparo (mentre attendiamo il verde di un semaforo pedonale).[8] Con la coda dell’occhio può essere considerato come un lavoro sulla percezione dinamica del cittadino, cioè di un soggetto contemporaneo che vive in uno spazio socializzato. Gli stati di percezione “marginale” che vengono messi in scena non sono più, come ne Il limite, quelli liberati nel paesaggio, ma quelli residuali della vita associata.
Non vi è cittadino più solitario del bambino che percorre la metropoli. Lo sguardo portato verso il basso che costituisce la cifra di Con la coda dell’occhio – diretto anche verso l’alto nella serie successiva, Rumore di fondo (1995/1997) – può essere inteso come un decentramento della prospettiva dell’adulto e contemporaneamente come il punto di vista spaesato del bambino fuori scala. I bambini fotografati a fine ottocento da Jacob Riis nello spazio inospitale dei bassifondi di New York, o la giovane operaia di Lewis Hine ripresa dal basso per sottolineare le dimensioni sproporzionate della macchina tessile a cui lavora, presuppongono un occhio esterno, superiore e adulto, provvisoriamente abbassato rispetto alla posizione normale di osservazione. Al contrario, nel lavoro di Ballo Charmet l’affossamento dello sguardo non è strumentale, ma empatico. Non si tratta, ancora una volta, di una facile mimesi, del “mettersi nei panni” di un bambino. Queste fotografie ci invitano a prendere la posizione sia dell’adulto che del bambino, nel continuum indissolubile di una soggettività espansa: le immagini sono allo stesso tempo noi stessi e i nostri figli, gli adulti che quotidianamente incrociamo nella città e di nuovo noi stessi bambini nella memoria del vissuto. L’occhio-corpo si muove così entro un campo che non è più solo visivo, ma che implica un tempo della crescita e della modificazione del soggetto. Lo spazio della città che possiamo nuovamente percepire “con la coda dell’occhio” non è un campo vuoto nel quale perdersi, ma uno spazio vitale nel quale ritrovare un io-sono-stato che avevamo rimosso.
Alcuni aspetti particolari fanno di Rumore di fondo un punto di svolta nella ricerca di Marina Ballo Charmet. L’avvicendarsi di soggetti diversi, anzitutto, introduce il tema della varietà dell’esperienza e dell’osmosi fra universi fenomenologici. Lo sguardo non è più circoscritto ad una unità di luogo – seppure fittizia, come in Con la coda dell’occhio – ma si muove nella casa, per le strade, tra le persone, in una discontinuità che non è un montaggio narrativo, ma un “travaso” di esperienze periferiche. A rendere omogenei questi ambiti di interesse è soprattutto l’attenzione per la “pelle” del mondo, per uno spessore delle superfici che sollecita il tatto. Ballo Charmet ha accennato in questo senso al tema della “piega”: una smagliatura nella trama delle cose o del corpo, ma anche un rivolgimento della superficie su se stessa, a formare uno spazio provvisorio. [9]
Se il campo visivo antiprospettivista dei lavori precedenti non forniva facili vie d’accesso alle forme del paesaggio o della città, in Rumore di fondo la modulazione delle superfici crea uno spazio avvolgente che allo stesso tempo racchiude e respinge.[10] Ogni piega del mondo, nell’architettura della città come in quella del corpo, si presenta insieme come casa e schermo, rifugio e labirinto, «nel battito incessante del centro e del margine».[11] Ma se le arti plastiche e la pittura materica possono effettivamente espandere il carattere tattile della visualità, nella fotografia la piega può essere solamente indicata. In effetti, il palpitare dei piani che attraversa Rumore di fondo entra in rotta di collisione con la calma piattezza della superficie fotografica. Tuttavia, come spesso nel lavoro di Ballo Charmet, questa contraddizione ha l’effetto di illuminare retrospettivamente aspetti nascosti di ricerche precedenti: a ben vedere, tutta la città informe di Con la coda dell’occhio – e forse tutta la città contemporanea – esiste o può essere utilmente considerata come una “piega”, un continuum di interno-esterno che impone di interrogarci senza sosta sulla nostra posizione di osservatori e di cittadini.
Un altro aspetto innovativo di Rumore di fondo consiste nell’introduzione del colore fotografico (per la sottoserie sui muri nell’interno della casa) a fianco del bianco e nero (che ritroviamo nelle fotografie della città e delle persone). Si tratta di un colore spesso desaturato, antipittorico, in se stesso “marginale” rispetto alla vivacità cromatica che domina nell’ambiente contemporaneo. Questo inserimento, che prelude all’utilizzo esclusivo del colore nei lavori successivi, segna uno scarto evidente rispetto al monocromatismo praticato da Ballo Charmet sino al 1995. La questione del colore fotografico – apparentemente legata a scelte tecniche o di gusto – ha rivestito un ruolo importante a partire dagli anni settanta, non solo nel dibattito sull’estetica fotografica, ma più in generale dal punto di vista antropologico. Come ha notato il filosofo Stanley Cavell a proposito del cinema, nel corso del novecento il passaggio dall’immaginario del bianco e nero a quello del colore ha corrisposto a un rivolgimento nella concezione del tempo dell’immagine: il chiaroscuro, il bianco e nero, a lungo associato con la rappresentazione drammatica dell’evento e quindi dell’attualità, è divenuto progressivamente il campo dell’“è stato” e del concluso; all’opposto è al colore fotografico che associamo inconsapevolmente un valore di presenza, l’idea di uno stato delle cose solo momentaneamente sospeso ma ancora vivo, pronto a svilupparsi nella dimensione di un futuro imminente.[12] Se questo è vero, la compresenza di bianco e nero e colore in Rumore di fondo aggiunge una dimensione temporale alla questione della “piega”: non più solo piega spaziale che integra interno ed esterno, ma anche piega del tempo non lineare, ondivago, allo stesso tempo passato e presente. Un ultimo, decisivo aspetto riguarda l’apparizione in Rumore di fondo del corpo umano. Se si eccettuano alcuni esperimenti sulle zone del corpo dell’inizio degli anni novanta, questo è il primo lavoro di Ballo Charmet nel quale lo sguardo si occupa intenzionalmente della figura umana. Non si tratta precisamente di dettagli ingranditi del corpo (quindi dell’estensione della piega a una dimensione spettacolare), ma al contrario di zone visive (nelle quali è lo sguardo a potersi espandere nel soggetto, per così dire). Come anche nei lavori precedenti, questo effetto di campo –non una descrizione ottica, ma un orizzonte di aspettativa – è frutto di un equilibrio eccezionale tra il punto di vista, la messa a fuoco selettiva, la luce disponibile, la presenza dello stesso soggetto. Sono tutti aspetti sviluppati in modo più ampio nel lavoro successivo – Primo campo (2003/2004) – dove il tema della figura umana viene affrontato più direttamente con il colore e portando il limite dell’attenzione/disattenzione nella piega del corpo, piuttosto che sul panneggiamento degli abiti. Anche qui, come in Con la coda dell’occhio, l’abbassamento del punto di vista implica lo sguardo del bambino che coesiste con quello socializzato dell’adulto. Nel susseguirsi di questi frammenti di figure possiamo ritrovare i momenti di distrazione nei quali l’occhio divaga soprapensiero, nel corso di una conversazione che diviene progressivamente un rumore di fondo; allo stesso tempo, si tratta del “primo campo” percettivo del bambino, la grande piega dell’abbraccio con il genitore, tra il volto e il petto.
Su Primo campo e suoi risvolti estetici e psicologici ha scritto osservazioni decisive Jean-François Chevrier, al cui saggio rimando.[13] Per concludere vorrei segnalare alcuni aspetti di questo lavoro e dei suoi sviluppi recenti (alcune coppie e trittici del 2004/2006), che riguardano un nesso tra percezione individuale e corpo sociale, a cui l’intera ricerca di Marina Ballo Charmet mi pare continuamente rimandare.
Desidero prendere le mosse dalla constatazione che in Primo campo ci troviamo di fronte a una piccola società, o a una comunità, fatta di persone piuttosto che di personaggi.[14] Un aspetto che mi pare cruciale in questo lavoro, ma che tende a rimanere implicito, è proprio il rapporto che intercorre tra queste persone. In Conversazione, una video-installazione del 1998, lo spettatore si ritrova immerso in una piccola folla di monitor, in ognuno dei quali una persona è ritratta nel semplice atto di respirare (il suono è amplificato per portare in primo piano il rumore del respiro interno ai corpi). La “conversazione” che viene messa in scena non è dunque quella verbale e dialogica, ma quella pre-verbale e sincronica della nuda vita. Il respiro, il soffio, il canale dell’inspirazione/espirazione può essere considerato come un’altra versione del tema della piega: quello che udiamo è il rumore dell’aria che attraversa l’interno del corpo, ma dal punto di vista del respiro, se così si può dire, il canale respiratorio rimane un esterno-interno, uno spazio topologico: in questo senso, la percezione del proprio respiro (come del battito cardiaco e di tutte le funzioni governate dal sistema nervoso simpatico e parasimpatico) è percezione di un altro-da-sé, della nostra limitata capacità di comandare il corpo.
Ma il punto centrale di Conversazione –ciò che viene ricollocato al centro dell’attenzione – è il respiro come flatus vocis che non ha ancora assunto la struttura del logos (ovvero si dà nello stadio regressivo del quasi-animale). A partire da questa intuizione (1998), è possibile vedere tutto Primo campo nel quadro di una conversazione muta: nella serie fotografica il respiro scompare in una sorta di “silenzio di fondo”, ma permane un senso di “affiatamento” tra le persone, reso visivamente attraverso la ripetizione di un numero limitato di situazioni (di campi visivi) che riportano la fisionomia individuale dei volti al carattere comune del “muso” animale. Questa comunità di persone è chiaramente costituita da donne e da uomini, che nella serie sono presenti in misura pressoché uguale.[15] Dal punto di vista del “primo campo” infantile, quella messa in scena dalla serie fotografica è una triade ideale, dove tra la madre e il padre il fotografo (e quindi di nuovo lo spettatore) si muove in sostituzione della figura del bambino. Ancora una volta, un rimando a lavori paralleli risulta illuminante. In Dimmi, una installazione video del 2000/2003, questa opposizione tra il maschile e il femminile è posta in modo esplicito e persino diagrammatico, attraverso il confronto tra un uomo che richiede la parola e una donna incapace di offrirla. Anche Dimmi appare dunque legato a Primo campo, esponendo con chiarezza ancora maggiore il conflitto tra logos (maschile) e pre-verbale (femminile), e il predominio del primo sul secondo.[16]
Nelle ricerche recenti di Ballo Charmet queste tensioni non solo percettive, ma dialogiche e interpersonali, mi sembrano rintracciabili nell’utilizzo di coppie e trittici che moltiplicano le identità del soggetto messo in campo. In queste nuove serie ritroviamo la struttura seriale già messa in atto ne Il limite, ma sarebbe fuorviante considerare queste opere come studi cinematici (o addirittura cronofotografici) sulla figura umana in movimento.Come sempre nella riflessione di Marina Ballo Charmet, il punto di attenzione non si trova all’esterno dell’immagine (dove è ancora possibile uno sguardo sinottico che coglie le differenze), ma al suo interno. Ancora una volta, occorre disporsi a un atto di spaesamento per cogliere la piega della differenza in queste ripetizioni del medesimo individuo (una piega che per una volta la paginazione del libro riesce a rendere così efficacemente). In questo senso gli ultimi trittici e dittici possono essere visti come il campo della piccola famiglia che ognuno di noi fondamentalmente è – allo stesso tempo madre, padre e bambino.
Seguendo queste riflessioni, appare evidente che il lavoro ventennale di Marina Ballo Charmet non si è mai allontanato da un campo problematico, che ho proposto di sintetizzare nella dialettica tra attenzione e distrazione. In questo senso non esiste una distinzione tra progetti come Il limite e Con la coda dell’occhio, il cui soggetto nominale è il paesaggio naturale e urbano, e lavori come Primo campo, Conversazione e Dimmi, che affrontano direttamente la figura umana: per Ballo Charmet il campo visivo è anzitutto campo del corpo, occhio-corpo che proietta e introietta sempre in modo plurale. Nei lavori recenti – Poco dopo (2005), sullo “scarto” entropico che si deposita nei luoghi dopo momenti caotici di vita associata (lo stadio, il mercato) e nelle serie ancora in fieri – come Parchi, che porta alcuni temi de Il limite nella città popolata di persone – Ballo Charmet sviluppa ulteriormente questa continuità tra percezione individuale e plurale, e cioè il carattere profondamente “urbano” del lavoro artistico, che presuppone uno scambio di sguardi e una dimensione “politica” del vedere. In video come Frammenti di una notte (2004) e Agente apri (titolo provvisorio, con Walter Niedermayr), la politica dell’attenzione/disattenzione si ritrova nel cuore di istituzioni come l’ospedale e il carcere, modelli di una città occhiuta che ha il potere di organizzare il campo visivo del corpo.
Attraverso la fotografia, questa tecnica ottocentesca, Marina Ballo Charmet continua a porre con eccezionale coerenza il problema sempre vivo della centralità fluida del vedente contemporaneo. Ma come ha scritto Roland Barthes a proposito dell’“ottuso”, l’arte non può limitarsi ad acuire lo sguardo dell’osservatore, pena il rischio di divenire una scienza minore, uno sterile protocollo di analisi: «ma in quanto cerca di produrre l’altra cosa che è nella cosa, essa rivoluziona tutta una epistemologia [...] la percezione è subito plurale [...] il mentale è quindi il corpo portato a un altro livello di percezione».[17]
A.Frongia “Sospensioni dell’attenzione” in Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Electa / Jarach Gallery, Milano, 2007
[1] Negli anni Trenta, a proposito del cinema e della metropoli, Walter Benjamin parlava di «ricezione in uno stato di distrazione»: cfr. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 46. Per la nevrosi ottocentesca, si veda Paolo Mantegazza, Il secolo nevrosico (1887), Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1995, p. 47.
[2] Jonathan Crary, Suspensions of Perception. Attention, Spectacle, and Modern Culture, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1999, pp. 218-9 e passim. Si veda anche Techniques of the Observer. On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1990.
[3] Le prime ricerche di Marina Ballo Charmet risalgono al 1985; tra il 1989 e il 1990 segue i laboratori di Gabriele Basilico (a Milano) e di Lewis Baltz (ad Arles), avviando un lavoro di ricerca che porta, nel 1991, alla pubblicazione de Il limite. Seguono nell’ordine Con la coda dell’occhio (1995), Rumore di fondo (1998) e Primo campo (2004).
[4] Paolo Costantini, “L’insistenza dello sguardo”, in L’insistenza dello sguardo. Fotografie italiane 1839-1989, Alinari, Firenze 1989, p. 13.
[5] «Di fronte ai “sentieri interrotti” di Heidegger […] la terra di Lévinas non ha sentieri: l’uomo deve andare incontro all’Altro tracciando il sentiero dell’Altro, cioè rintracciandolo, invece di tracciare il proprio sentiero. L’uomo è un diboscatore dell’Altro.»: Piero Bigongiari, L’evento immobile, Jaca Book, Milano 1987, p. 197.
[6] Sulla irriducibilità di questo programma di Marina Ballo Charmet ha scritto parole incisive Elio Grazioli: «Non è propriamente un limite, non è questione di limiti, è dimenticanza, impossibilità di guardare: perché di fatto noi non possiamo guardare direttamente lì, sarebbe infatti mettere al centro ciò che sta sul bordo, che a sua volta si sposterebbe più in là, più accanto. Certo l’occhio della macchina fotografica di Ballo è centrato in questo modo, ma è solo un’apparenza, una trappola logica»: cfr. Lapolvere nell’arte, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 268.
[7] Enzo Paci, Introduzione alla edizione italiana di Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 11. Dal 1972 al 1976, Marina Ballo Charmet ha frequentato le lezioni di Paci all’Università Statale di Milano sulla filosofia relazionale, sulla fenomenologia e sulla politica, per poi proseguire gli studi nel campo della psicologia. Dal 1981 è psicoterapeuta infantile in una struttura pubblica territoriale di Milano.
[8] A proposito di questo inconscio urbano, Georges Perec ha parlato di un “infra-ordinario” che attende di essere nominato, di un “endotico” contrapposto all’“esotico” della divagazione escapista (L’infra-ordinaire, Seuil, Paris 1989, p. 11).
[9] Vedi, in questo volume, le sue osservazioni alle pp. 110-3. Per il concetto di piega e per i suoi rimandi alle convoluzioni della monade leibniziana, il testo di riferimento rimane Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco (1988), Einaudi, Torino 1990.
[10] L’idea di un ingresso negato (desessualizzato) al paesaggio è tratta da Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p. 107
[11] Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto (2002), il Saggiatore, Milano 2004, p. 111.
[12] Stanley Cavell, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film (1971), Harvard University Press, Cambridge (Mass.) and London 1979, p. 80 sgg.
[13] Si veda oltre, alle pp. 102-4.
[14] Non a caso l’età apparente di questi genitori non è quella canonica. La madre di Ballo Charmet non è lafigura quasi virginale dell’iconografia cristiana o di Julia Margaret Cameron: si tratta, potremmo azzardare, di una madre possibile – né ideale, né sociologica –che mette in campo un desiderio di essere “piega”, piuttosto che la condizione oggettiva della maternità o della paternità.
[15] Nella versione pubblicata della serie (Le Point du Jour Éditeur, Paris 2004), 14 immagini sono attribuibili a figure femminili e 11 a figure maschili (mentre 2 rimangono di incerta identificazione).
[16] «E ciò che egli dice ha già accolto da tempo la muta domanda della silente, e il suo sguardo gli chiede quando finirà. Egli deve affidarsi a colei che ascolta, affinché essa prenda per mano la sua bestemmia e la porti fino all’abisso in cui giace l’anima del parlante, il suo passato, il morto campo che da solo non saprebbe raggiungere.»: Walter Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, Einaudi, Torino 1982, p. 95.
[17] Roland Barthes, “Réquichot e il suo corpo”, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III (1982), Einaudi, Torino 1985, p. 221.