Per anni Marina Ballo Charmet ha utilizzato, come mezzo esclusivo della propria ricerca artistica, la fotografia. Prediligendo gli oggetti banali e comuni che abbiamo sempre sotto gli occhi ma che non vediamo, che compongono il nostro orizzonte quotidiano, ma che solitamente eliminiamo dal campo di osservazione, ha inquadrato marciapiedi popolati da erbe ed erbacce, facciate di edifici qualsiasi, dettagli di interni: tutte quelle cose che stanno ai margini e la cui esistenza è data per scontata. Per farlo ha decentrato lo sguardo, spostandolo dal centro degli oggetti abituali verso i bordi. Lo ha fatto ricorrendo alla visione periferica dell’occhio, attraverso immagini colte “con la coda dell’occhio”: così, mentre noi tendiamo a mettere a fuoco solo ciò che ci è familiare, Ballo fa riemergere il “rumore di fondo” della nostra mente e ci consente di riconoscere il “sempre visto”, sottraendolo all’effetto dell’abitudine, della fretta, della distrazione: il suo è stato, sin dall’inizio, un viaggio fotografico alla scoperta del rimosso, nell’intento di rinnovare la percezione di ciò che già credevamo di conoscere.
Quando, nel 1995, ha per la prima volta rivolto l’attenzione a persone, invece che a cose, Marina Ballo Charmet ha sentito l’esigenza di captarne la vita, di veder vivere le loro immagini: di rendere loro il tempo e il soffio vitale di cui la fotografia le privava. Per poterlo fare ha utilizzato il video. Ha realizzato Conversazione (1998): un’installazione in cui, di un momento conviviale, ha colto non l’aspetto convenzionale, né quello linguistico, né quello contenutistico; si è soffermata invece sull’aspetto prelinguistico e non codificato dei movimenti minimi, inconsapevoli e appena percettibili del corpo, sulle asperità della pelle, sul respiro che si percepisce sotto gli strati degli abiti, sui dettagli apparentemente insignificanti dell’abbigliamento: sulle pieghe di un golf, sull’allacciatura di un bottone.
I suoi video sono un naturale sviluppo delle fotografie. Anti-spettacolari, alieni da qualsiasi effetto speciale, poco descrittivi e per nulla narrativi ma non estranei a una tonalità affettiva, conservano la capacità di fissare angoli e momenti che restano normalmente ai margini della visione, che sono destinati ad essere visti senza essere guardati, a trascorrere senza venire registrati. Della vita mantengono la presenza di oggetti e di scorci comuni e la temporalità: non quella, velocizzata, che costituisce una cifra distintiva della nostra contemporaneità, ma quella dilatata dei fenomeni che avvengono continuamente intorno a noi senza che ci sentiamo in obbligo di prenderli in considerazione, senza sollecitare da parte nostra attenzione né intervento alcuno. Questi video sono costituiti, in molti casi, da sequenze in tempo reale di eventi “qualsiasi”: con Disattenzioni (2000/2003) la telecamera segue l’ombra di luce che, passando tra le imposte di una finestra, scivola lentamente sul pavimento attraversando una stanza, fino a sparire con il tramonto del sole; con Lettura (2000/2003) segue il ritmo regolare del respiro che solleva il petto e fa ondeggiare impercettibilmente il libro di un uomo intento a leggere; con Passi leggeri (1999) la telecamera, semplicemente legata alla vita, fa proprio il movimento di una donna, Marina Ballo stessa, che si muove in un ambiente domestico.
Lo svolgersi dei “fatti” del video in tempo reale – o quasi – mette lo spettatore nella condizione di rivivere, all’interno dello spazio espositivo, quello scorrere del tempo che dovrebbe essere così naturale, ma che improvvisamente ci sembra tanto lento; e induce una riflessione sulla percezione soggettiva del tempo. Così come la scelta di portare l’attenzione su ambienti domestici e poco connotati, mettendo al centro della visione il corpo anche quando invece questo parrebbe essere assente, significa rendere sensibile un tipo di percezione dello spazio, del nostro stesso corpo, ben diversa da quella che ci dà la tecnologia, evidenziando quanto, di noi stessi e del contesto in cui viviamo, lasciamo ogni giorno passare inosservato. Mentre il muoversi ancora incerto dei passi di un bimbo nel video Stazione eretta, o la difficoltà nel pronunciare una parola in Dimmi (2000/2003), rivelano drammi quotidiani, drammi non detti e poi rimossi, di cui solo la nostra profondità psichica manterrà, forse, memoria, di cui solo il corpo resterà, forse, portatore.
Nel video Frammenti di una notte (2004), al centro sono di nuovo l’interesse e l’attenzione per il corpo: ma un corpo che non è più centro della dinamica energetica dell’essere umano; un corpo che da strumentale per l’attività fisica quale era, ormai giace, soggetto alle leggi naturali dell’invecchiamento o della malattia, e richiede cure; e proprio per questo diventa il luogo di un incontro con l’altro.
Esercitarsi nel campo dell’osservazione, recuperare una esperienza del vivere preconscia, elementare ma essenziale, sottolineando la pregnanza di ogni momento e rimandando continuamente ad una dimensione sensibile è il modo che Marina Ballo ha scelto per prefigurare un modo più autentico di abitare il mondo, perché non avvenga di scoprire un giorno che la vita è accaduta mentre noi eravamo intenti ad altro.
G. Scardi, “Poeticamente abitare” in Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Electa / Jarach Gallery, Milano, 2007
Una prima versione di queste note è stata pubblicata in Marina Ballo Charmet. Video 1998-2003, a cura di Gabi Scardi, Careof/La fabbrica del vapore, Milano 2003.