“Fotografare significa rendere presente”, ha scritto Marina Ballo Charmet, ciò che “è lì”, che “è così” (1). Ma come far apparire ciò che è presente se non attraverso uno sguardo tradotto in un’immagine inevitabilmente in ritardo? Come rendere in un medium per sua natura obbligato a elidere, a ritagliare, ciò che si dà come pienezza di sensazione immediata? Si gioca in questa relazione tra immanenza e separazione, tra pienezza e parzialità, la sfida decisiva per l’artista: estendere la “sensibilità” del mezzo fotografico a regioni inattese e insieme contraddire, screditandole, la sua volontà, implicita e superba, di appropriarsi del mondo. In che modo? Demolendo anzitutto l’attitudine predatoria alla selezione, all’archiviazione, la pretesa di attestazione “obiettiva” della fotografia; piantando nel suo punto focale il seme della disattenzione, ovvero “un modo di percepire non controllato, discontinuo” (2), a una logica della sensazione posta al di qua del controllo cosciente.
Di tutti i poteri della fotografia, quello di produrre l’illusione di un calco del visibile è in effetti, nella pratica di Ballo Charmet, il meno utile, il meno persuasivo. Lo sostituisce una metodica diversa, in cui l’ambiguo, l’incerto, l’inframince, come lo chiamò Marcel Duchamp – quello stato perennemente indefinito che segna il limite estremo del percepibile e abita lo scarto tra sensazione e immaginazione (3) –, svolgono un ruolo essenziale. Le sue immagini nascono letteralmente dall’esposizione a questo strato, in cui decade l’orgoglioso dominio dell’apparato fotografico e affiora invece, senza l’aspettativa di una trasfigurazione o di una redenzione, il caos entropico della vita, la sua strana e sfuggente pienezza.
Questa “esperienza limite” impressa nel medium è perciò intrinsecamente antisublime e antieroica. Essa si attua concretamente – in una pratica che abbraccia più di tre decenni, e con pochissime eccezioni – in attraversamenti di spazi quotidiani (la città costruita, l’abitazione, a volte con la presenza di figure familiari) e di scarni scenari naturali. Esporre la pellicola 35 mm (mai sostituita dai nuovi dispositivi digitali), significa per Ballo Charmet esporsi in ogni caso all’incerto e al non significativo, perdere presa, fare esperienza di una desoggettivazione. Questa riduzione o eclisse dell’Io è anche la premessa di una possibile “riparazione” che spinge ad accogliere le manifestazioni della vita inconscia e la loro apparente mancanza di significato, a non rifiutare gli inciampi, le rimozioni o le presenze inattese. Per questo le sue fotografie non cercano mai di persuadere, di sedurre, e appaiono spoglie, lontane da ogni retorica; esibiscono, ci fanno sentire, la presenza di un altrove che ci elide, cui non siamo necessari, minano il nostro narcisismo e la costante, inevitabile tentazione a osservare il mondo in chiave antropomorfa.
L’inventario della sua opera comprende così oggetti e luoghi indefinibili, anodini, non memorabili: spigoli di cemento rugoso, marciapiedi sconnessi, l’erba aggrovigliata in un prato, i salienti anneriti di condomini senza nome, neve sporca, il selciato umido di una piazza, uno specchio d’acqua increspata, il collo, la guancia in primissimo piano di figure senza identità. Cemento, granito, asfalto, intonaco, ferro, vegetazione, polvere, sabbia, legno, detriti, mare, cielo, pelle, segni labili, fuggevoli, ottusi, formano la strana tavola periodica di fotografie scattate spesso in momenti di luce incerta o di lenta transizione atmosferica, dove il tempo naturale diventa il reagente iconico, il fattore di apparizione delle immagini. Albe, crepuscoli, foschie: in questi momenti privi di contrasti, le cose appaiono dotate di qualità impreviste, come nel caso di Le ore blu. Giudecca (2017), dove la superficie del mare sembra emanare una abissale fosforescenza, del video L’alba (2014-15), in cui la facciata del Duomo di Milano assiste al progressivo salire della luce diurna, o della serie Cinquantadue minuti di cielo (2018-19), in cui il cielo svela lentamente, al progredire dell’ora, il suo doppio potenziale atmosferico e cosmico.
Si pensa spesso al fotografo come al testimone privilegiato, al flâneur dotato di un infallibile dispositivo di registrazione, al rabdomante dell’attimo decisivo. Ma ciò che sta fuori, la città contemporanea, è per Marina Ballo Charmet una fabbrica di nulla, un deposito di relitti, di forme calpestate, è uno spazio speso che scivola sotto i piedi, sotto le ruote, scorre insensibile lungo le fiancate delle automobili. La sua fotografia si imbeve di questa dispersione, la abita e se ne fa abitare. Una semplice incursione in un quartiere vicino può diventare un itinerario iniziatico che eludendo la perenne ingiunzione del tema e della metafora e concentrando lo sguardo nei punti vuoti, nelle zone non fotografiche, conduce a una sorta di svuotamento, di affilata essenzialità. Si tratta dunque, come l’artista stessa scrive in quella che è forse una delle sue dichiarazioni di poetica più esplicite, non tanto di produrre informazioni, quanto piuttosto di registrare un’esperienza, la complessità delle sensazioni di un particolare spazio. Testimoniare tenendo conto delle sensazioni e del senso dell’incerto, dell’imprevisto, del non codificato, di qualcosa che proprio in quanto esperienza rimanda a un essere dentro l’oggetto-luogo, e non solo di fronte a esso. Restituire le percezioni del luogo rimanda alla differenza tra presentare e rappresentare, a una forma di testimonianza, significa disporsi a un atteggiamento di apertura e di ascolto (4).
Due movimenti dunque: registrare un’esperienza, darne testimonianza. Anche per questo accompagnare le immagini con la scrittura è stata una ricorrente necessità per Ballo Charmet. Dialogare a distanza con i suoi autori prediletti, appuntare pensieri, redigere diari di lavoro, chiarire retroterra teorici, sono in effetti altrettanti momenti – sia sul versante dell’affinamento poetico sia su quello del chiarimento metodologico – di un processo indispensabile a sostenere e orientare il lavoro artistico. I testi chiariscono così in primo luogo il valore euristico che l’atto fotografico ha assunto nella biografia dell’artista, in senso tanto espressivo quanto esistenziale, in esplicita relazione con l’analisi personale portata avanti negli anni di formazione e con l’attività di psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza svolta nell’arco di un trentennio. È la scrittura infatti a illuminare criticamente le scelte compiute, a motivarle e ad approfondirle, mettendole in relazione con un campo problematico al cui centro rimane il tentativo di mettere in relazione produttiva la pratica dell’immagine con la ricerca di una più profonda comprensione delle componenti sommerse della personalità.
Da questo punto di vista – e senza cedere per questo alla tentazione di stabilire correlazioni artificiose tra fotografia e psicoanalisi –, tutta la pratica artistica di Ballo Charmet muove dalla peculiare relazione stabilitasi nel suo percorso tra lavoro artistico e lavoro psicoterapeutico, visti entrambi come processi simili “a quando ci si mette in una particolare relazione di ascolto con il mondo o il paesaggio esterno, di sorpresa verso cose che sembrano non avere un senso particolare”(5). Trovare i modi per rompere il filtro dell’abitudine e mettere in crisi l’automatismo del riconoscimento esponendo quanto vi è di sfuggente e di perturbante, di irrigidito, di alieno, nell’esperienza quotidiana, è il nodo intorno al quale l’artista non ha smesso di interrogarsi e di sperimentare sia nell’attività terapeutica che in quella propriamente creativa, innervate entrambe da una specifica critica alle strutture linguistiche irrigidite dall’uso.
Che tipo di sguardo è all’opera nella fotografia di Marina Ballo Charmet? Uno “sguardo eliso, sguardo occulto, sguardo nascosto” (6), è stato scritto. Sguardo periferico anche, un aggettivo da intendere nel duplice senso percettivo e sociale, che l’artista adotta accostandosi ai luoghi con discrezione, mimetizzandosi tra i passanti, camminando con loro. E camminare in effetti è una modalità di creazione ricorrente per l’artista, come accade ad esempio nei video Passi leggeri (1999) e Square (2014-15): camminare e camminarsi, incorporare il va-e-vieni quotidiano tenendo la macchina fotografica o la videocamera vicino o indosso al corpo, così da rendere gli apparecchi sensibili alle oscillazioni, agli spostamenti imprevedibili causati dal movimento. Il primitivo atto fenomenologico è messo così al centro di immagini spogliate della pretesa di farsi sintesi e astrazione, che aboliscono il punto di vista ideale, sopraelevato, l’orizzonte dell’appuntamento fatale tra Sopra e Sotto, tengono a freno l’ansia, la seducente fantasia dell’omnispezione, e annullano, soprattutto, l’obbligo di una didascalia, di un commento, di un contesto.
Comporre immagini camminando vuol dire d’altro canto adottare un passo sospeso, non direzionato, non efficiente, una sorta di disattenzione satura di pulsazioni primitive – la spinta dei muscoli e dei tendini, l’oscillazione ritmica del respiro, il pieno continuo e indifferenziato del corpo. E camminare è anche il modo per destabilizzare la supposta coerenza dell’immagine fissa e contrastare l’illusione della trasparenza a se stesso del soggetto che la produce e del soggetto che la guarda. È una dérive, se si vuole, anche se la pratica situazionista rimane estranea all’orizzonte di un’artista interessata a scavare nello spessore del sensorio individuale più che a intrecciare progressivi scivolamenti nella griglia irrigidita della città. La sua dimensione non è infatti quella dell’ambiente urbano, delle strutture a grande scala, ma lo spazio percorribile dalla mano o dal corpo acerbo dell’infante – come nel video Stazione eretta (2000) – con cui si identifica il suo sguardo, il perimetro dei gesti quotidiani, gli automatismi inconsci dove la percezione “laterale”, distratta, fa salire in superficie il sottofondo organico, l’indifferenziato dell’inconscio. Camminare insomma come gesto essenzialmente vitale, come auscultazione e apprendistato all’immagine, come via di fuga dal già noto.
E ancora: a chi appartiene lo sguardo che si avvicina al suolo, che scivola sotto l’orizzonte abbassando drasticamente la prospettiva e tenendosi così accuratamente lontano da ogni tentazione verticale? È lo sguardo del cane, risponde Jean-François Chevrier (7); è lo sguardo del bambino, replica l’artista. Ma non più intendendo, è più di un sospetto, l’infanzia incantata di un’inconcepibile purezza dell’occhio. “Posare lo sguardo” si dice, deporlo, potrei dire, è un gesto di rispetto, non di rimpianto, implica una decisione: abbandonare il punto di vista sopraelevato, la vue d’en haut, il volo d’uccello delle tavole architettoniche e delle confortanti vedute ideali che modellano la nostra attesa ansiosa di un mondo finalmente pulito, di un cosmo immaginato, utopicamente risanato e tutto nostro.
Scendere, invece. Ciò che si raccoglie abbassandosi è la prossimità tattile con la superficie, con la terra, ciò che si produce è il disfarsi dell’orizzonte prospettico e il ribaltamento bidimensionale sul piano, la saturazione dell’attenzione e del campo visivo con gli accidenti minuti, stupidi, delle superfici. È un paradosso che questa ricerca di prossimità venga compiuta in nome di una richiesta in apparenza antitetica – più vicini, in effetti, dovrebbe significare più coinvolti empaticamente, più “dentro” alle cose. Nelle fotografie di Marina Ballo Charmet il risultato è invece opposto: immagini distaccate, oggettive e come assenti, prossime a un nonsense originario. Di un’oggettività astratta, disincarnata, che cerca di cogliere dentro le forme, dentro il loro profilo, una pulsazione diversa, una specie di ruvidezza scostante – la pelle rugosa, irta di peli, chiazzata, calda e forse troppo viva che ci si para innanzi negli scatti della serie Primo campo (2001-03), ma anche il cemento incongruamente bianco, freddo e abrasivo, minaccioso, delle inerti “fioriere” urbane – che ricrea tattilmente nell’immagine il senso di una durezza, di un’ostensione enigmatica e irreversibile della materia (8). Tutto questo, trasferito sul piano figurativo, diventa una domanda implicita rivolta a noi che guardiamo: cosa resta e cosa è saltato via, e cosa al contrario, non c’era?
Una costante infrazione nella fotografia di Marina Ballo Charmet, il non-a-fuoco, corrisponde a un tratto di poetica e a una critica implicita alla tradizione in cui essa stessa si è formata. Per la generazione dei suoi maestri, Gabriele Basilico in primo luogo, e per quella di molti suoi compagni di strada, il deep focus equivale a un assioma: il visibile va ripreso fino ai dettagli più minuti, deve risultare leggibile nella profondità, perché la fotografia, in quanto resistente alla pura fascinazione iconica, possa dirsi autentica. Il dovere civile della testimonianza e il dovere estetico della chiarezza si devono fondere in una visione in cui il documento si presenta attraverso un’implicita autocelebrazione: il mondo controllato e regolato da una “insistenza dello sguardo” attuata per mezzo di una “minuziosa descrizione superficiale”, come scriveva Paolo Costantini in un testo del 1989 che ha finito per rappresentare una sorta di manifesto della fotografia italiana di fine Novecento (9).
È stato giustamente notato (10) quanto invece sin dalla sua prima serie, Il limite, Ballo Charmet abbia invece disarticolato questi assunti, mirando a incorporare all’immagine proprio la distrazione, la dispersione, l’assenza e la ricerca di un contatto, ciò che Barthes aveva definito il “senso ottuso”. In questa chiave, alla fotografia non si chiede di ribadire e glorificare il dominio dell’occhio, ma di interrogare la propria stessa egemonia, di forzarsi al proprio impensato, di diventare veicolo di un modo del pensiero che non rappresenta nulla ma si afferma come un’intensità in atto, come materia che si fa espressiva.
Diventare forse quel che Gilles Deleuze chiama un “blocco di sensazioni”, qualcosa che si produce nel reale e produce il reale, e in cui entra in crisi l’antinomia tra soggetto e cosa, e tra cosa e immagine (11). Il fuori-fuoco si contrappone così su più fronti al piano a fuoco. Dove quest’ultimo “emerge” e implicitamente si riscatta dal flou, lo guarisce (una vittoria anche morale, una sorta di giustezza), i “blocchi” catturati dalla fotocamera di Ballo Charmet, con la loro concretezza – particolari di architetture o di interni, lastricati, e soprattutto dettagli ravvicinati di corpi umani –, retrocedono nell’indistinto, parandosi di fronte a chi osserva le immagini come una superficie cieca, impenetrabile, illeggibile. Luoghi disabitati dal linguaggio, vuoti che si sottraggono alla coscienza (“il rimosso della città”, lo chiama l’artista, il rimosso tout court probibilmente), dove si profilano realtà impassibili, forastiche, mondi che la fotografia fa emergere nella loro definitiva revocazione.
Nella serie Primo campo, certo una delle più intense e originali tra quelle realizzate dall’artista, le fisionomie scompaiono per effetto paradossale della prossimità quasi tattile delle inquadrature. Ciò che appare nelle stampe a colori di grande formato che caratterizza questo gruppo di lavori è invece una superficie astratta, un’epidermide coperta di rughe, peli, di imperfezioni, scoperte e come subito negate dal fuori-fuoco. A volte l’angolo rosso di una bocca o una ruga particolarmente profonda – una ferita, una cicatrice – agitano il fantasma del volto scomparso, in altre le anatomie sembrano confondersi, i volumi contenuti dalla pelle espandersi o contrarsi in modi indefinibili. Il corpo è qui ridotto a un’estroflessione ciecamente vitale, a un nodo di istinto e fragilità carnale: un campo di puro colore, ma forse ancor più di calore animale, percepito tattilmente anziché visto.
Due movimenti, due tensioni contrapposte, lo svuotamento e la presenza, sembrano così stabilirsi in queste fotografie. Il primo processo a corrodere l’impalcatura prospettica e l’aspettativa di una gerarchia di valori simbolizzata nell’opposizione tra nitido e non-a-fuoco, tra superficie e profondità, tra figura e sfondo, il secondo a rafforzare l’urgenza, la necessità di un altro sguardo che incorpori ciò che gli è costantemente sottratto dal proprio stesso predominio. Rimanere sulla superficie per andare più a fondo, restaurare il significante nella sua vibrazione e apertura originarie, diviene in Primo campo un compito tanto espressivo quanto, e forse più necessariamente, cognitivo.
Come situare dunque nel panorama dell’arte del nostro tempo un’opera così singolare e restia alle classificazioni, dar conto del suo singolare registro di cose, spazi, corpi, istanti? E come interpretare l’ulteriore frammentazione, spaziatura, ingrandimento che vi operano la riquadratura fotografica o il frame del video? Per quanto innegabilmente potenti, le cose riprese da Marina Ballo Charmet non accennano a nessuna origine, non surrogano un ordine mancante, e neppure si affidano alla deriva nel perturbante della tradizione surrealista. Stanno di fronte, in qualche caso con l’indifferenza immemoriale delle inquadrature di un pioniere della fotografia come Henri Le Secq, in altri riprendendo il vuoto gremito di dettagli di certe immagini di Eugène Atget, di Timothy O’Sullivan, di Lewis Baltz, di Raoul Hausmann, tutti da sempre interlocutori e maestri elettivi dell’artista.
Mostrati in questa condizione passiva, catatonica, gli “oggetti” allineati da Ballo Charmet fanno pensare piuttosto alle Anonyme Skulpturen che Bernd e Hilla Becher hanno fotografato per decenni nella Germania delle grandi industrie e delle miniere abbandonate, nelle pianure del Midwest americano e ancora altrove. Ma di quelle strutture seriali, identiche le une alle altre e ogni volta differenti che i due fotografi tedeschi censivano nei loro atlanti morfologici, l’artista italiana conserva solo un riferimento generico, abolendo totalmente la planarità e il punto di vista a distanza che garantivano la loro neutralità, il latente antropomorfismo che le abitava, e senza, soprattutto, raccogliere tipologie e varianti in un archivio concettualmente ordinato. I volumi che a fatica restituiamo a un continuum urbano si rivelano qui altrettante trappole: le loro essenziali e potenti qualità volumetriche – le curve dei cigli di marciapiede, ad esempio, certi aggetti inesplicati – restano non riscattate, non sanate da una iscrizione funzionale, sono anonime in un senso non opposto implicitamente ad autoriale, quanto già negato in partenza a una forma stabile. Appartengono alla famiglia dei relitti trascinati su una spiaggia, ma di quel genere cui neppure il più consumato cercatore di tesori attribuirebbe mai un valore. Sono proprio per questo, imprevedibilmente, più umani, nel senso della opacità di una condizione dominata da una tragicità non emendata, senza testo, senza esempio, senza memoria.
Restituendo queste larve di immagini, e facendone il baricentro costante della sua ricerca, in un certo senso è come se l’artista volesse tornare alla lettera della proposizione minimalista, alla muta presenza specifica del parallelepipedo di Donald Judd, una concezione, si è detto (12), in cui è possibile leggere la scoperta del potenziale soggettivo dell’oggetto-opera e al tempo stesso del suo porsi sempre in relazione a un contesto, a una relazione e a uno sguardo umani (“Vedere è sempre un’operazione del soggetto, dunque un’operazione scissa, inquieta, agitata, aperta”(13)). Trasportando sulla superficie delle fotografie la negoziazione fenomeno- logica – perpetuamente rinnovata – tra soggetto e mondo, il lavoro di Marina Ballo Charmet può così restituire montata in immagini l’energia di una immanenza che non sta più solo nelle cose o solo nell’occhio ma è piuttosto il folgorante risultato del loro incontro.
Le sue fotografie non documentano il continuum di un’esperienza vissuta, neanche quando – accade nella serie Il parco, ad esempio, o ancora, in precedenza, ne Il limite – gli scatti si moltiplicano e si affiancano come still frames. Anziché una successione lineare, o un avanzamento cinematico, esse rivelano in tutti questi casi un momentaneo istante di stabilità o meglio un arresto casuale (14). Così nel trittico Paris, Les Buttes Chaumont (2006) la successione delle tre inquadrature, lo ha notato Andrea Cortellessa, “sembra, ma a ben vedere non è, quella logico-spaziale rispondente alla nostra ipotetica percezione «reale»”(15): l’alterazione dell’ordine spaziale distrugge l’implicita aderenza narrativa nei confronti della realtà attribuita di solito alla fotografia. Ogni altro dittico o trittico della serie Il parco è dunque, similmente, il risultato di un montaggio, le cui suture scompaiono dalla superficie ma continuano a frustrare l’illusione di uno sviluppo temporale lineare, di un passaggio prima-dopo, col risultato di far “vacillare il nostro senso del tempo, la nostra collocazione nello spazio e dunque, in generale, il nostro rappor- to con la realtà” (16).
Il potere di testimonianza assoluta della fotografia – il noema di Barthes: “è stato” (ça a été) – viene investito nel lavoro di Ballo Charmet da un interrogativo più generale: quale modalità di visione e di pensiero si profila nelle immagini? E di quale esperienza, di quale soggetto sono a loro volta la traccia o l’indice? Tutte le componenti fotografiche, si potrebbe rispondere, sono riconfigurate dall’artista in base a una medesima esigenza: sfibrare gli irrigiditi, frusti meccanismi sociali e culturali attraverso i quali gli individui definiscono e riconoscono il loro ambiente per definirsi e riconoscersi su rigidi principi di esclusione. Quello visto attraverso la lente di un soggetto che si apre a una percezione, a un sentimento “oceanico” può al contrario prefigurare una nuova possibilità di relazione con l’esterno. Testimoniando questa attitudine, le immagini fotografiche divengono a questo modo altrettante “possibilità di delocalizzazione estrema” (17), occasioni per additare, in forme ellittiche, sommesse ma decise, un nuovo paradigma per il soggetto contemporaneo.
Se le fotografie di Marina Ballo Charmet appaiono come fuori-luoghi prosciugati, privi di narrazione, di identificazione sentimentale, allo stesso tempo, in segreto quasi, esse suggeriscono infatti anche una possibilità per ripopolare i deserti di cui vanno componendo la mappa.
Questa possibile metamorfosi del soggetto si profila come il predicarsi di una coscienza aperta all’impersonale e all’animale, in cui vengano reincorporati la distrazione, la latenza, la multivocità, di cui parlano Anton Ehrenzweig e Salomon Resnik, esploratori entrambi della “visione periferica”, di un’attività di conoscenza e di una percezione che riammettono i propri stati indeterminati, infrasottili, preconsci. A queste condizioni, appunto, l’immagine fotografica può afferrare l’indistinto, il non-ancora-simbolizzato della sensazione. Nella sua indifferenza al destino individuale, nel suo presentarsi come un “blocco”, come qual- cosa di incondizionato, essa può preservare insieme l’esperienza vertiginosa di un visibile che si autopercepisce e quella di un’interminabile fuoriuscita da sé.
1 Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, a cura di Stefano Chiodi, Quodlibet, Macerata 2017, p. 23.
2 Ibid., p. 28.
3 Marcel Duchamp, Inframince, in Id., Notes, Flammarion, Paris 1999, pp. 19-47. Cfr. anche Thierry Davila, De l’inframince. Brève histoire de l’imperceptible, de Marcel Duchamp à nos jours, Édi- tions du Regard, Paris 2010, p. 77.
4 Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio cit., p. 107.
5 Ibid., p. 21.
6 Marco Belpoliti, Guardare la piazza, in Gabriele Basilico, Marina Ballo Charmet, milanopiazzaduomo, catalogo della mostra (Milano, Museo del Novecento, 10 ottobre 2015 - 28 febbraio 2016), Contrasto, Roma 2015, p.n.n.
7 Jean-François Chevrier, A terra. Bodyscape & cityscape, in Stefano Chiodi (a cura di), Sguardo terrestre. Marina Ballo Charmet, cit., p. 38.
8 Su questa valenza tattile cfr. Jean-François Chevrier, Les Parages du regard, in Marina Ballo Charmet, Primo campo, cit., pp. 59-67.
9 Cfr. Paolo Costantini, L’insistenza dello sguardo, in Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier (a cura di), L’insistenza dello sguardo. Fotografie italiane 1839-1989, Alinari, Firenze 1989, pp. 11-13.
10 Antonello Frongia, Sospensioni dell’attenzione, in Id. (a cura di), Marina Ballo Charmet. Fotografie e video 1993-2006 cit., p. 93.
11 Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991; trad. it., Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, in part. pp. 161-184.
12 Vedi Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les Éditions de Minuit, Paris 1992; trad. it. Il gioco delle evidenze, Fazi, Roma 2008, pp. 37-52.
13 Ivi, p. 51.
14 Cfr. anche quanto scrive a questo proposito Antonello Frongia, Sospensioni dell’attenzione, cit., pp. 95-96.
15 Andrea Cortellessa, Defotografare il mondo, «alfabeta2.it», www.alfabeta2.it/2013/10/27/ defotografare-il-mondo/ (consultato il 14 giugno 2019). Cfr. anche il saggio in questo stesso catalogo.
16 Ibid.
17 Emanuele Coccia, La vita sensibile, il Mulino, Bologna 2011, p. 71.
Testo dal catalogo: Marina Ballo Charmet. Fuori campo, a cura di Stefano Chiodi, testi di Laura Pugno, Stefano Chiodi, Andrea Cortellessa, Marina Ballo Charmet, Istituto Italiano di Cultura, Madrid
Per la mostra: Marina Ballo Charmet. Fuori campo, a cura di Stefano Chiodi, Istituto Italiano di cultura, Madrid, 18 ottobre- 20 dicembre 2019