«Il Cammino è l’espressione materiale di un rapporto attraverso una distanza, l’invariabile mezzo di una comunicazione e l’invito a fare un passo, verso una meta o una direzione».[1] E se un collo fosse anch’esso un cammino? Lo potrebbe essere all’interno di un altro paesaggio, senza orizzonte.
L’occhio vi si avventura, come un passo che si posa o scivola dentro e si perde. È una parola, in francese détour, a esprimere i rischi e i giochi dello sguardo. Un luogo comune del libertinaggio vuole che l’occhio o la mano prenda in questo modo le distanze dal pudore. Lo sguardo è simile al tatto quando l’occhio stesso è attratto, catturato, se non addirittura afferrato. Di questi movimenti inconsci o tropismi della vista Marina Ballo Charmet si è sempre occupata, ponendosi alla periferia del suo oggetto.
Il meccanismo fotografico fa sì che la relazione soggetto-sfondo sottostia a delle regole ottiche. Niente è lasciato al caso se non quello che risulta casuale come la confusione tra due piani ad opera di un “fantasma”, per esempio. Se noi consideriamo il mondo da un punto di vista puramente ottico, la distinzione di piani diversi è una questione geometrica: i piani si susseguono regolarmente in profondità. Ma non è così dal punto di vista simbolico. E lo sappiamo già dalla fine dell’ottocento che il simbolico non può essere ricondotto alle leggi ottiche, anche se non si manifesta solamente nel mondo completamente diverso del meraviglioso. Il fantastico non è il meraviglioso ma si manifesta come una rottura delle certezze quotidiane. Il fantasma, che non a caso viene chiamato così, proviene da lì. Esso è figlio di un linguaggio che ha le radici nel campo visivo. Una differenza di velocità ha prodotto un mutamento di tempo e una distorsione della continuità spaziale. E infatti vediamo che questa accidentalità dà luogo a una suggestione che per noi evoca un’estetica di tipo simbolista, più che fatti misurabili attraverso una descrizione naturalista. Ma non è qui che troviamo questo tipo di effetti: quello che interessa Marina Ballo Charmet sono le avventure e l’eros della percezione. Non le interessa produrre né suscitare delle visioni, ma si attiene agli esercizi dello sguardo e ai turbamenti della percezione senza sollecitare il registro dell’evento o della trovata.
Qui l’idea del piano va intesa in un senso cinematografico piuttosto che pittorico, perché si riferisce più all’inquadratura che alla composizione. Un’ulteriore precisazione terminologica: la “figura” non è più un elemento del teatro simile ai personaggi di un racconto, ma è una condensazione della percezione, un mostro ottico, in certi casi una postura simile a un movimento di danza. Solo che il movimento, limitato a due zone ben precise – la testa che si articola sul corpo e la parte inferiore del viso – non è tanto quello di un corpo fotografato messo in posa davanti all’obiettivo, ma è quello dello sguardo dietro all’obiettivo. Ciascun piano costituisce una pausa dello sguardo che si muove e si emoziona, palpita e sobbalza sulla superficie del corpo guardato. Questo procedimento cinematico dell’immagine fissa deve ovviamente molto all’esperienza dei video realizzati da Marina Ballo Charmet dopo la pubblicazione di Con la coda dell’occhio.[2] Bisogna però evitare di confondere immagine fissa e fermo-immagine. Le immagini raccolte in Primo campo non sono dei fermo-immagine all’interno di un continuo filmico. Ciascuna è il risultato di una sequenza di riprese che con quelle cinematografiche ha in comune soltanto la mobilità dello sguardo in un campo dato: il “primo campo”. Il fermo immagine è una stasi dello sguardo, non l’interruzione di uno svolgimento filmico o di un processo di esplorazione visiva. Viene in mente la tradizione del visopaesaggio che a partire dalla famosa serie di Helmar Lerski, Verwandlungen durch Licht (“Metamorfosi attraverso la luce”) tanto deve al modello del primo piano cinematografico. Qui però il campo percettivo non è il viso – le immagini di Primo campo non sono infatti dei ritratti – e lo sguardo non percorre il corpo come invece fa la cinepresa con il paesaggio che ha davanti.
Quando si parla di campo si parla anche di fuori-campo. Ma che ne è di ciò in questo libro? Per fuori-campo si intende tradizionalmente, nel linguaggio cinematografico, lo spazio esterno che è oltre i limiti dell’inquadratura. Qui il fuoricampo entra nel campo così come la visione cosiddetta “periferica” entra nel campo della ripresa. Evitando il ritratto, Marina Ballo Charmet evita la frontalità della ripresa dell’oggetto come forma statica afferrabile che rinvia a un soggetto stabile della percezione, un soggetto fisico e psichico consapevole e padrone di se stesso. Nelle sue immagini l’occhio fotografico vaga sulla superficie dei corpi e non c’è nessuno sguardo endoscopico che compensi la riduzione o l’annullamento della profondità frutto della prospettiva. La profondità emerge addirittura in superficie come la carne sotto la pelle. «Questa – diceva Merleau-Ponty – è la dimensione del nascosto per eccellenza». E aggiungeva: «Ogni dimensione è un che di nascosto». O, ancora più esplicitamente: «la profondità è il mezzo di cui le cose dispongono per restare nitide, per restare cose, pur non essendo ciò che io guardo attualmente. È per eccellenza la dimensione del simultaneo. Senza di essa non ci sarebbe un mondo, non ci sarebbe Essere, ma solo un’unica zona mobile di nitidezza che non potrebbe portarsi qui senza abbandonare tutto il resto – e una “sintesi” di queste “vedute”. Laddove in virtù della profondità a poco a poco esse coesistono, scivolano l’una nell’altra e si integrano. È dunque la profondità a far sì che le cose abbiano una carne: e cioè oppongano alla mia ispezione degli ostacoli, una resistenza che è appunto la loro realtà, la loro “apertura”, il loro totum simul. Lo sguardo non vince la profondità: l’aggira.»[3]
È chiaro che la pelle, con la sua grana e le sue irregolarità, tesa sullo spessore della carne, può apparire come il sollevamento di una profondità. La pelle resta la superficie di un corpo. non è il deposito dei puri e semplici dati ottici. Grazie al gioco – che non è soltanto metaforico – del fuori-campo e della profondità, Marina Ballo Charmet sposta ed amplia il luogo, il topos retorico del viso-paesaggio trattato in primo piano. Il viso è attaccato al corpo. Niente a che vedere con l’illuminazione e la metamorfosi del viso di Marlene Dietrich filmata da Josef von Sternberg. In compenso, si ritrova un orizzonte nell’inquadratura stretta che sembrava negare la possibilità stessa di un orizzonte. Se il primo piano fotografico è troppo spesso una forma di concentrazione del motivo che mira a celebrare qualche frammento o dettaglio del mondo visibile (versione “nuova oggettività”) o, al contrario, a esaltare il fascino dell’informe (versione surrealista, Boiffard, Le gros orteil) qui invece lo sguardo tende a dimenticare il motivo feticizzato per assumersi lui stesso il ruolo di causa prima dell’esperienza visiva. Il feticcio, nella sua definizione sessuale, può essere considerato come una forma estrema del simbolo isolato, astratto dal mondo ordinario. Le immagini di Primo campo non colgono lo stacco di un frammento in questo modo isolato. In ogni momento, il corpo fotografato perde le sue coordinate spaziali e sembra fondere-fondersi nella luce, come un pezzo di pelle stirato o un rilievo appianato, lisciato. Le zone sfuocate, in contrasto con le rughe e le asperità dell’epidermide, rappresentano l’incertezza o l’accelerazione dello sguardo che scivola e perde presa, si fonde, anch’esso, per primo, nel campo percettivo. È qui che si rivela la logica di una percezione che assume se stessa come oggetto.
Ben prima della comparsa della fotografia, già nella storia della pittura, si erano visti simili effetti di contrasto, ispirati alla camera oscura: derivavano da un lavoro d’osservazione e corrispondevano agli accenti della composizione. Odilon Redon riferisce che Corot gli aveva dato il seguente consiglio: «Accanto ad un’incertezza, ponga una certezza.»[4] Secondo i termini dell’ottica moderna, questa ricetta sfrutta le variazioni dell’acume visivo; la composizione prevede il lavoro di adattamento dello spettatore. Ma si può ancora parlare di osservazione e di composizione quando l’oggetto è così ravvicinato che l’attività dello sguardo assomiglia piuttosto al modellamento di uno scultore? Marina Ballo Charmet non “mette” le cose una accanto all’altra, non oppone zone di nitidezza a zone sfuocate. Tutto avviene nel passaggio e nelle modulazioni della luce secondo le sinuosità del corpo e della visione stessa. Modellamento e modulazione sono i termini più appropriati per designare il carattere tattile dello sguardo ravvicinato. La vicinanza è tale che l’immagine cambia tenore, lo sguardo non è più una presa a distanza ma un modo di contatto e di partecipazione, psichica come pure fisiologica.
Quegli enormi pezzi di corpi che fuoriescono dai vestiti non hanno sguardo, dato che non sono dei visi. Tuttavia si collocano lontano da terra, vicino all’occhio. Più che alla posizione della macchina fotografica – che, dotata di una lente focale variabile, può riprendere a distanza – questa prossimità rimanda alla visione monoculare. Gli effetti che ne derivano possono essere mostruosi o grotteschi. Ma il grottesco è dissociato dai procedimenti di deformazione della caricatura. Non si tratta infatti di alterare la fisionomia per ricondurla ad uno stato di animalità, anche se il viso diventa un muso, come può accadere nello scambio di tenerezze amorose. Si tratta ancor meno di abbassare il viso al livello degli organi inferiori a forza di deformazioni. Se c’è una mostruosità, questa si trova innanzitutto nello sguardo stesso, ridotto al tatto di una visione monoculare. Non è solo l’effetto del primo piano, anche se quest’ultimo ha sempre favorito la genesi di mostri ottici (e la teratologia è diventata scienza grazie al microscopio). È un contagio tra la visione periferica e il corpo, all’avvicinarsi degli occhi, nei paraggi dello sguardo. Come indica l’etimologia, questo contagio opera per contatto: agisce progressivamente e a perdita d’occhio, a dispetto delle frontiere anatomiche e dei punti di nitidezza, dove può fissarsi l’osservazione. Qui il mostruoso non ha la qualità distinta delle cose osservate e non risiede nemmeno nelle forme composte (composite) o accuratamente deformate: è nello sguardo.
Ma i dintorni della sguardo sono anche e innanzitutto la vicinanza, se non addirittura il limitare della bocca. Al di là del collo, sopra il mento, all’estremità del muso, appare la bocca. È l’ausiliare o il sostituto dell’occhio vorace. Dato che quest’ultimo viene tenuto fuori-campo, essa è l’organo visibile del piacere ed è lei che bisogna soddisfare. Jacques Lacan ha posto l’accento su «un appetito dell’occhio in colui che guarda.» Sottolinea infatti: «Questo appetito dell’occhio, che si tratta di nutrire, fa il valore affascinante della pittura. Questo, secondo noi, deve essere cercato su un piano molto meno elevato di quanto non si supponga, in quella che è la vera funzione dell’organo dell’occhio, quell’occhio pieno di voracità, che è il malocchio.»[5] Ma Marina Ballo Charmet, psicoanalista di formazione, abituata a lavorare con i bambini, ha ricavato dalla sua esperienza di analista un’idea un po’ diversa dei giochi dello sguardo. Nelle sue immagini, la bocca non è soltanto imparentata con l’occhio. La zona fotografata, che comprende la bocca, è situata tra gli occhi e il petto, tra l’occhio e il seno, sempre fuori-campo.
Lacan sostiene che non esiste uno sguardo positivo; nega ogni effetto benefico ad uno sguardo animato da pulsioni scopiche che cercano di essere soddisfatte a dispetto o a danno dell’integrità dell’oggetto. Il quadro risponde allo sguardo, come una “fascinazione” che placa la voracità distruttiva dell’occhio. Alla funzione dell’occhio risponde e corrisponde «il motivo tranquillizzante, civilizzatore e affascinante della funzione del quadro.» Ma lo sguardo distruttore innanzitutto separa. Il quadro placa l’effetto di incantamento, d’arresto del movimento e di mortificazione, che agisce al punto di contatto della separazione e della distruzione. C’è poco spazio in questa configurazione, bloccata com’è tra due “funzioni” che rinviano entrambe a degli effetti d’immobilizzazione: l’incanto dello sguardo e il fascino del quadro. Il movimento della vita è stretto in una morsa. E non è un caso che per Lacan la pittura si riduca a una scena teatrale, animata dall’azione dei tocchi di colore (disposti sulla superficie). D. W. Winnicott, invece, ricostruisce lo spazio di gioco della creatività, aperto dallo sguardo benevolo della madre. Winnicott parla del «gesto creativo di un bambino che tende la mano alla bocca della madre, e che tocca i suoi denti, e che al tempo stesso la guarda negli occhi, e la vede creativamente.»[6]
In Primo campo, la bocca non è tanto una minaccia, quanto il polo ambivalente di una sensazione globale di fiducia, prodotta dal rilassamento o dall’abbandono del corpo consegnato alla mobilità dello sguardo. Questa fiducia permette il manifestarsi delle tendenze aggressive che appaiono negli effetti della deformazione mostruosa, come pure consente la dissoluzione sensibile delle forme al di là delle suddivisioni anatomiche. In sintonia con quanto descritto da Winnicott, il primo campo percettivo è quello relativo al legame primordiale della madre con il lattante, in cui si instaura lo “spazio potenziale” del gioco.
Lo sguardo di Marina Ballo Charmet, tuttavia, è meno incantato, più crudele, anche se non condivide la dialettica teatrale della alienazione letale descritta da Lacan. Mentre altri artisti, pittori o fotografi, mettono in scena un corpo che ha subìto una metamorfosi fino a divenire informe, per garantirsi un controllo dell’immagine esorcizzando così la loro propria precarietà, Marina Ballo Charmet vede nelle suggestioni dell’amorfo l’accesso ad un fondo narcisistico dove la vita e il gioco delle forme comprendono l’estasi della dissoluzione.
Una prima versione di questo saggio è stata pubblicata in Primo campo, Le Point du Jour Éditeur, Paris 2004, pp. 60-68.
Post Scriptum
Il tempo trascorso dalla redazione di questo testo, del marzo 2004, mi invita a alcune osservazioni supplementari. Vorrei ritornare sull’idea del “mostro ottico” che avevo avanzato a un certo punto del discorso, provando a sostituire questo concetto con una discussione sulle capacità di ingrandimento e di espansione spettacolare dell’immagine fotografica. Nel campo delle rappresentazioni come nell’ordine del vivente, la costituzione del mostro e l’apparizione del mostruoso sono tipici di un processo di trasformazione basato sull’alterazione o la deformazione.
Il mostro ottico si definisce per rapporto a un modello visivo che è anche un modello di visibilità e una norma di rappresentazione. Nell’ambito del ritratto – al quale Primo campo si collega, seppur lontanamente –il mostruoso interrompe l’ordine delle somiglianze genealogiche. La fotografia, che tratta la “varietà delle cose”, come si diceva nel cinquecento – penso in particolare al trattato di Girolamo Cardano, De rerum varietate – è stata a lungo praticata come tecnica di restituzione delle somiglianze, applicata soprattutto al volto umano. Il mostruoso sorge nel momento in cui la somiglianza divaga e perturba il principio di identità o, sul piano psicologico, la fisionomia famigliare, più o meno idealizzata, di un modello. Il mostro ottico non è un errore di natura: è la varietà sconfinata di una somiglianza slegata (distaccata dalla norma identitaria).
Il realismo fotografico è stato difeso o criticato sin dall’ottocento in funzione di un rapporto di fedeltà rispetto alle apparenze. Tuttavia nulla è più fluttuante – e inafferrabile delle apparenze, soprattutto quando sono elaborate dalla forza di trasformazione della somiglianza. La registrazione, che opera per riduzione e miniaturizzazione, permette di cogliere un frammento estratto da un supposto continuum ambientale. Da qui l’idea, insostenibile, di una performance visiva che fa leva sulla capacità predatrice della fotografia istantanea. Marina Ballo Charmet in realtà si occupa dell’esperienza del tatto visivo che precede l’atto di cogliere un oggetto definito (designato, nominato) e che si desidera possedere come tale. Il suo modo di guardare (way of seeing) corrisponde al percorso di una superficie accidentata e alla percezione a tentoni di un volume avvolgente.
Ballo Charmet introduce nella nomenclatura della descrizione fotografica un approccio differente rispetto alle modalità della conoscenza distaccata e ai meccanismi di appropriazione (di captazione) estetica. Non cerca neppure l’intuizione empatica, né il pathos corrispondente di un’immagine che privilegia l’apparizione, o la breccia sul visibile, rispetto all’apparenza.
A Marina Ballo Charmet non interessano tanto le mancanze o le rotture di un tessuto visivo, i tratti di discontinuità – che hanno un valore epifanico nell’immaginario della fotografia istantanea – quanto il sollevamento e l’ampliamento del campo fisiologico dell’immagine.
In un periodo in cui il grande formato è divenuto una pratica corrrente della fotogenia spettacolare, soprattutto in fatto di paesaggio urbano, Marina Ballo Charmet lavora su un registro che si potrebbe definire intimo, se questo termine non rimandasse a modalità autobiografiche che le sono estranee. La dimensione dell’intimo corrisponde in Primo campo a una prossimità che in Con la coda dell’occhio era associata a una visione abbassata e rasoterra. I fotografi non hanno mai smesso di giocare sulla distanza focale, soprattutto quando hanno iniziato a lavorare sistematicamente sugli effetti analitici o di trasfigurazione del primo piano. Ma senza eccezioni – ho già indicato le fotografie dell’“alluce” (il Gros orteil) di Jacques-André Boiffard pubblicate da Georges Bataille sulla rivista Documents – il trattamento del dettaglio in primo piano, tratto da un oggetto naturale, da un artefatto o da un pezzo di corpo, era retto da una concezione trionfale dell’apparecchio al servizio della “nuova visione” (Moholy-Nagy) cinematica e costruttivista.
Senza sottoscrivere la critica alle pretese geocentriche dell’essere umano condotta da Bataille, Marina Ballo Charmet si distacca da questa eredità sperimentalistica degli anni Venti. Per lei non si tratta di sperimentare sulle possibilità di estensione ed espansione della visione umana adulta. Le immagini di Primo campo si situano al contrario al di qua dello spazio di uno sguardo costituito: quest’ultimo viene ricondotto alle premesse psico-fisiologiche della presa visiva.
Le fotografie degli anni venti contavano sull’impatto dell’immagine senza considerarla in quanto tale un campo visivo. Oggi la fotografia sa sfruttare le possibilità della scala spettacolare, ma utilizza spesso l’ingrandimento come effetto pittorico (e neo-pittorialista) che rimanda a una definizione minimale della “veduta”, fondata sin dall’ottocento sul modello della riproduzione: tutta la fotografia è riproduzione di un’immagine che preesiste all’esperienza della ripresa. Nulla di tutto ciò in Primo campo, dal momento che la postura dello sguardo posato sulle cose o messo di fronte allo spettacolo del mondo non si dà a priori. In questo lavoro la qualità spettacolare è il risultato di un processo di espansione che ha come fine non tanto l’estensione della “veduta” (di una inquadratura predefinita), quanto una esperienza psico-fisiologica in sintonia con la natura preverbale dell’immagine. Questo registro dell’esperienza è diverso da quello di un vedere assoggettante, che fonda il proprio impero su norme di oggettività e sul corrispondente atteggiamento di dominio. Lo spettacolo prende forma al di qua di un mondo costituito come spettacolo. L’espansione dello sguardo dà vita a un campo visivo (un primo campo) nel quale l’allucinazione non ha subìto la riduzione della prova di realtà.
J.F. Chevrier, “I dintorni dello sguardo” in Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Electa / Jarach Gallery, Milano, 2007
[1]. Paul Claudel, “Le chemin dans l’art”, in La peinture hollandaise et autres ecrits sur l’art, Gallimard, Paris 1967, p. 151.
[2]. Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio, Art&, Udine 1995.
[3]. Maurice Merleau-Ponty, Il Visibile e l’Invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1993, p. 233.
[4]. Odilon Redon, À soi-même. Journal (1867-1915) (1922), Librairie José Corti, Paris 1979, p. 36.
[5]. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), trad. it. di A. Succetti, Einaudi, Torino 2003, p. 113.
[6]. Donald W. Winnicott, Gioco e realtà, trad. it. di G. Adamo e R. Gaddini, Armando, Roma 1974, p. 182.